LA COLLANA DI PERLE

Striscione NO camorra

A bocce ferme, per quanto roventi, si profila un quadro che non fa che rinnovare l’inquietudine dell’opinione pubblica circa l’operato dei criminali e delle istituzioni.

Sulla natura dolosa dell’incendio del Morrone, innescato in più punti collocati ad arte, per distruggere il più possibile, non ci sono dubbi.

Il fatto che l’incendio si sia sviluppato all’interno di un parco nazionale, con stringenti vincoli di tutela ambientale, urbanistica e architettonica, porta ad escludere lo scopo più frequente della criminalità incendiaria: la speculazione edilizia.
Le ragioni dell’atto criminale, considerando il contesto montano del rogo, conducono quindi su un’unica pista investigativa, oggetto delle seguenti riflessioni.

A nostro modo di vedere, potrebbe delinearsi il profilo di un progetto di incendio doloso che avrebbe lo scopo di agguantare la pioggia di euro che lo Stato potrebbe elargire per il rimboschimento.

La “collana di perle” infilate nel filo della teoria che andiamo a spiegare si compone di elementi – “perle” – disposti in ordine cronologico.

1) La siccità e il caldo epocali di questa estate erano stati ampiamente annunciati;

2) Nonostante le “raccomandazioni” della Presidenza del Consiglio, il richiamo del capo della Protezione Civile e l’aggravante della sciagurata eliminazione del corpo forestale dello Stato, l’Abruzzo si presenta all’inizio dell’estate con un Piano Antincendi Boschivi privo di mezzi aerei, come la legge impone;

3) i criminali appiccano i roghi sul Morrone;

4) la macchina dell’emergenza parte con lentezza e inadeguatezza, elementi che peggiorano enormemente i termini del disastro;

5) la reazione istituzionale della Regione è inadeguata e affidata inizialmente alle dichiarazioni via facebook di un assessore dalla tempestività imbarazzante – appena 6 ore dopo il primo rogo — quanto inopportuna, perchè nel suo post si legge già la direzione che la politica intende assumere : il rimboschimento in deroga alla legge. Direzione confermata tre giorni dopo da D’Alfonso, con la convocazione della giunta e la richiesta dello stato di calamità per ottenere più di 300 milioni proprio per il rimboschimento.

Le domande che ci siamo fatti e che giriamo a voi che leggete sono: i criminali che mettono fuoco lo fanno a occhi chiusi? E se la siccità c’è stata anche nelle altre regioni, che pure hanno avuto i loro incendi, perché si accaniscono con l’Abruzzo? Hanno o non hanno vantaggi dalla loro attività criminale?

Sono domande pesanti e inquietanti alle quali non possiamo dare risposte perché ora è il tempo dello studio. Il tempo dell’indagine, è il tempo di riflettere e di dividere i buoni dai cattivi, gli indifferenti dagli opportunisti. Ma il tempo ci aiuterà a capire chi sono gli attori di questa tragedia, chi i burattini, chi le comparse e chi i suggeritori.

Sorveglieremo il gioco delle parti nel teatro della politica. Perché non è il momento degli entusiasmi da “aggiusta tutto” e amici come prima. Prima non ci piaceva. Ora non ci piace. Perché senza consapevolezza non ci può essere ricostruzione del patrimonio.

Vorremmo poter dispensare un consiglio non richiesto: che la ferita resti, che le piaghe della terra martoriata vengano curate. Meglio una ferita sotto gli occhi di tutti, che guarisca con i tempi giusti , piuttosto che una ricostruzione posticcia, ai limiti della connivenza, in deroga ai principi di legge in difesa dei territori. Meglio cenere che coprire il torbido.

Per legge, infatti, il rimboschimento a seguito di incendi, è previsto dopo cinque anni, per due ragioni principali.

La prima è che realizzando il rimboschimento in deroga alla legge è come dire ai criminali di incendiare tutti i boschi che vogliono; la seconda è che i boschi ricrescono da soli, col tempo che la natura impone. Oggettiva linearità istituzionale è il rispetto delle regole, che il “tempestivo” post di qualcuno, ha infranto, in nome di un amore assai perverso e discutibile per la propria terra.

Piangeremo ma non saremo complici.
NON CI FAREMO CONTAMINARE
Nuovo Senso Civico

Quando si rompe la macchina si va dal meccanico, quando un bosco si è bruciato ci si dovrebbe rivolgere al botanico.

Nel documento seguente la scienza suggerisce come risparmiare 300ml di euro, come ridurre il rischio di una maggiore propagazione degli incendi semplicemente lasciando alla natura il compito di riprendersi la terra, come valorizzare economicamente le nostre riserve forestali.

A beneficio di chiunque voglia davvero bene all’Abruzzo.

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Rimboschimenti a conifere. Dott. Aurelio Manzi Botanico

I rimboschimenti a conifere prevedono l’utilizzo di diverse specie: abete rosso, larice, cedri, ecc., ma soprattutto pino nero (Pinus nigra) poiché questa specie è molto frugale e rustica per cui cresce anche sui terreni poveri di suolo, rocciosi e molto acclivi.

I rimboschimenti a pino nero furono ideati e messi in atto proprio in Abruzzo alla fine dell’Ottocento e inizi Novecento dall’ispettore forestale Montanari. Questo utilizzò il pino nero di Villetta Barrea per rimboschire i versanti montani denudati ed aridi, a seguito del sovra pascolamento, sistemando il terreno in gradoni e terrazzamenti. Dall’Abruzzo questo metodo di rimboschimento si diffuse in tutta Italia.

Durante la prima guerra mondiale furono utilizzati i prigionieri austriaci per effettuare i rimboschimenti a pino nero di alcune aree dell’Appennino centrale. Specialmente nel secondo dopoguerra (anni 50) furono effettuati molti rimboschimenti a pino, specialmente per dare lavoro alle persone disoccupate nei centri montani e nel Sud Italia, o per prevenire frane e valanghe che minacciavano paesi o strade importanti.

I rimboschimenti a pino nero però presentano diverse controindicazioni.

– Le pinete tendono ad acidificare i suoli con i loro aghi che, caduti sul terreno, non si decompongono facilmente. Dove ci sono le pinete le specie autoctone, in particolare le latifoglie (querce, faggio, carpini, ecc) non riescono a reinsediarsi facilmente, sia per le caratteristiche del suolo che per la carenza di luce.

– Le pinete risultano facilmente infiammabili per la presenza di resina negli aghi e nei rami. Quando prendono fuoco le fiamme sono molto alte e difficili da domare. Peraltro anche il terreno ricco di pigne e aghi di pino facile esca del fuoco. I più grandi e pericolosi incendi forestali in Abruzzo hanno sempre interessato le pinete di rimboschimento (Pineta di Roio a L’Aquila, pineta a Pino d’Aleppo delle gole di Popoli, pinete a pino nero del versante settentrionale della Majella, ecc.). Anche gli incendi di quest’anno (Morrone e Gran Sasso a Vado Sole) hanno interessato rimboschimenti a conifere. I boschi di latifoglie, ove è presente un strato di sottobosco più sviluppato e la flora muscinale (muschi), riescono a trattenere più umidità di quanto facciano le pinete che si presentano più aride e più infiammabili.

– Nelle pinete invecchiate, si cerca di intervenire diradando i pini per permettere alla luce di arrivare al suolo al fine di favorire l’ingresso alle latifoglie, gli alberi che costituivano la primitiva copertura forestale. Per fare questo, la società deve pagare poiché le ditte forestali non vogliono attuare questi interventi di “riconversione forestale” avendo come unica ricompensa i tronchi che tagliano. Infatti il legno dei pini, a differenza di quello delle latifoglie (querce, faggio, carpini, frassini, ecc.), non ha alcun valore economico (nemmeno come legna da ardere) e pochissime richieste commerciali. Le nostre pinete, pertanto, da un punto di vista economico non presentano alcun interesse, nonostante gli esosi costi connessi al loro impianto. In passato i pini venivano sfruttati per ricavarne resina, attività oggi del tutto abbandonata. Potrebbero avere un valore con le centrali a biomassa.

– nelle aree dove ci sono formazioni autoctone (del tutto naturali) di pino nero (che solitamente cresce solo nelle aree rupicole più scoscese e proibitive) come nel caso della Majella o dei monti del Parco d’Abruzzo (Camosciara) i pini introdotti nei rimboschimenti hanno un potenziale effetto negativo. Infatti se i pini reintrodotti provengono da altre varietà e popolazioni italiane o estere (Alpi, Balcani, ecc) possono ibridarsi con i pini locali con problemi di inquinamento genetico. È quello che forse sta succedendo ai pini della Majella (Fara San Martino, Caramanico).

– Effettuare oggi rimboschimenti a pino nero o con altra conifera è del tutto anacronistico e privo di valenze ambientali (anzi è controindicato). Il bosco si sta ridiffondendo naturalmente attraverso i processi naturali (successione secondaria) che risultano piuttosto veloci. In pochi anni anche nelle aree bruciate, se non troppo acclivi o erose, il bosco tornerà naturalmente a costo zero e con le specie autoctone (latifoglie) che, peraltro, presentano un valore economico maggiore per le qualità del legno, la possibilità di pascolo per il bestiame, ecc. nonché per le ricadute ecologiche.

– Oggi il rimboschimento naturale, conseguenza dell’abbandono delle tradizionali attività produttive (agricoltura, pastorizia) è un processo di grandi dimensioni spaziali che va assolutamente controllato e gestito per le forti implicazioni economiche ed ambientali che questo produce (pericolo di incendi, perdità della biodiversità, perdita dei pascoli, ecc.)

Si potrebbero ipotizzare alcuni rimboschimenti a pino nero (in considerazione della sua frugalità e capacità di adattarsi ai terreni poveri e particolarmente erosi) solo sui versanti rocciosi fortemente acclivi e poveri di suolo, magari sopra strade o abitati per favorire in maniera più veloce il ritorno del bosco allo scopo di stabilizzare i versanti per tutelare gli abitati sottostanti o le vie di comunicazioni da frane, alluvioni, valanghe ecc. In questo caso però le aree dovrebbero essere prima sistemate (gradonatura, raccolta di acqua, ecc) e poi ripiantumate. Comunque, per fare questo, si potrebbero utilizzare anche alcune latifoglie autoctone molto frugali che si comportano come pioniere (allo stesso modo dei pini), come nel caso dell’orniello o del carpino nero.
Dott. Aurelio Manzi

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